lunedì, luglio 31, 2006

Brand Extension: è veramente cosa buona e giusta?

La parola d'ordine nel mercato moderno è differenziazione. Ma non nel senso di "distinguersi" dagli altri (cosa che invece risulta difficile da trovare) ma nel senso di "allargare" il proprio campo d'azione. Gli anglosassoni, che in questo campo (marketing) la fanno da padroni hanno una parola per indicare "l'area di intervento": la chiamano brand extension e come si evince facilmente, si intende "estensione della marca".

Brand extension (strategie di estensione di marca), ossia strategie che consentono di differenziare l’offerte di prodotti, rinnovare l’identità di marca e accrescere il valore che la marca ha raggiunto nel corso degli anni. L’utilizzo di brand extension cresce intorno gli anni ’80, poiché i brand manager divengono consapevoli che la marca non è solo etichetta, funzione di differenza rispetto la concorrenza, ma possiede anche un valore sociale, semiotico, immateriale e potenziale per l’impresa.
Per quanto mi riguarda, sono abbastanza contrario a questa pratica in quanto sono un "integralista del brand", nel senso che sono uno di quelli (come spiegato in questo post) che crede che un brand debba essere "toccato" il meno possibile (sia graficamente che "merceologicamente").

La recessione economica però spinge molte aziende ad allargare la propria offerta di prodotti nella speranza (il più delle volte vana) di allungare i tentacoli su nuovi mercati sperando così di avere nuove entrate facendo leva su nuovi mercati. Il rischio maggiore nasce però dal fatto che questa "differenziazione" studiata a tavolino non coincide con l'immagine che i consumatori si sono fatti del brand durante gli anni e si rischia di fare più danni che altro.
Ad esempio se un'azienda di lamette si mettesse a produrre software come reagirebbo gli utenti? E che ne so io? ;) Nel senso che nessuno lo può dire.

Le case history a disposizioni riportano anche esempi ricchi di successi; i primi due che mi vengono in mente sono la Procter&Gamble e la Virgin. Per la prima c'è da fare un discorso particolare, infatti produce dai saponi per lavatrice alle patatine, dalle lamette alle caramelle. Il successo della P&G è basato, paradossalmente, sul fatto che nessuno lo sa!! Cioè pochissime delle persone che mangiano le patatine più famose del mondo (quelle col tubo...) sa che la stessa casa produce saponi. Forse non gli fregherebbe nulla, o forse non le mangerebbero più, non so.
Per quanto riguarda la Virgin invece le condizioni sono totalmente diverse da quelle di P&G. Nata come etichetta discografica, ha differenziato il proprio business entrando prima nel mercato dei soft drinks (Virgin drinks) e poi addirittura nei trasporti aerei (Virgin Express). Il tutto è stato compiuto mantendendo ben visibile il logo, informando il proprio target e attraverso numerose interviste, disseminate su diversi magazine, del proprietario di Virgin, Sir Richard Branson.

La brand extension si collega in maniera, direi quasi indissolubile, con la brand loyalty, o comunque sono "più portati" alla differenziazione brand che hanno uno zoccolo duro di consumatori fedeli che sono quindi "ben predisposti" a seguire il brand in...tutte le sue avventure.
Discorso particolare meritano i brand automobilistici; questi infatti fanno della loyalty dei propri utenti (non tutti consumatori, si pensi per esempio a Ferrari) una leva attraverso la quale lanciarsi in differenziazioni di produzione a prima vista molto ardite. In questo caso entrano in gioco le componenti psicologiche dell'emulazione, del mito che rendono il brand ovattato in un ambiente quasi mistico per l'utente/fruitore/consumatore.

Chiosa finale: sono cresciuto giocando a rugby dove mi veniva ripetuto che chi osa vince, nel caso della brand extension mi sento di dire che non è sempre così...

[via marketing routes]

posted by Andrea Signori @ 31.7.06   1 comments

1 Comments:

At 10:37 AM, Anonymous Anonimo said...

Trovo il vostro blog molto interessante. Complimenti!

L.S.

 

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